di Valeria Potì
Quando “entri” in un cantiere per documentare ciò che accade, hai tante cose da imparare.
Anzitutto imparare a muoverti e saper parlare.
Ti devi muovere come chi ha necessità di osservare, ascoltare capire e documentare, devi quindi necessariamente trovarti il più vicino possibile a tutto quanto accade. Allo stesso tempo però sei un soggetto esterno, non direttamente impegnato nelle operazioni di lavoro, risulti inutile nel processo produttivo di un cantiere, pertanto devi cercare di non essere di intralcio allo stesso.
Devi poi imparare a parlare, conoscere i tempi e le persone con cui confrontarti, devi comprendere la loro lingua, tecnica, molto tecnica, e devi impararla già mentre ti parlano, ché tempi e modi per spiegarti le cose non sempre ci sono.
Fatto questo si è pronti per il cantiere.
Ma se mantieni vivo il desiderio di scoprire, di lasciarti meravigliare, pronti non lo si è mai.
Ho passato due mesi a parlare e farmi spiegare questa fase del cantiere, quella della “spinta del monolite”. Loro dicevano “monolite” e io pensavo ad una grande roccia (l’accezione più comune). Poi l’ho visto ed ho acquisito un nuovo concetto di monolite: un parallelepipedo di cemento, cavo, lungo otto metri circa e pesante diverse tonnellate, la rappresentazione fisica dell’inamovibilità e loro invece lo muoveranno.
Ed eccoci qui alla fase della spinta del monolite.
La prima spinta, dopo aver scavato la roccia: un metro e venti in dieci minuti.
Ferma lì davanti, non percepisci il movimento.
Immobile, scatti a intervalli regolari, metti tutto in video ed eccolo qui il movimento. Sembra quasi una magia, sembra leggerezza e invece dietro c’è il duro lavoro contro la roccia, la forza di due pompe idrauliche, il calcolo degli uomini, la loro fatica, l’esultanza di un metro lineare che segna l’evoluzione.
In due secondi di video e in un metro e venti c’è tutto questo e molto di più.
Mancano ancora sette metri e dieci giorni di pioggia.
Le sfide in salita sono le più entusiasmanti.
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